Equilo, da equus = città dei cavalli, e, a seconda delle trascrizioni anche Equilio, Esquilio, poi Esulo, Lesulo, Jexulo, Jexollo, a seconda delle trascrizioni, oggi Jesolo, ebbe i natali durante l´Impero Romano quale vicus (= villaggio) su di un´isola in prossimità della foce del Piave: era una delle numerose tappe dove le imbarcazioni mercantili sostavano, soprattutto d´inverno, all´interno della laguna, al riparo da venti (Bora) e tempeste, sul percorso da Ravenna, porto dove s´imbarcava il grano della IX regione augustea, Aemilia, alla grande città−fortezza di Aquileia, baluardo dei confini orientali di Roma.
Esposti alle continue invasioni barbariche (dal V secolo in poi), una parte degli abitanti indifesi di Altino ed Oderzo, ed anche del Trevigiano e del Bellunese, scendendo il Piave, scelsero Jesolo quale ultimo rifugio.
Caduto l´Impero Romano, Jesolo e le altre città dell´estuario veneto (Rialto, Murano, Burano, Torcello, Malamocco, S. Pietro in Volta, Chioggia, Brondolo, Fossone, Eraclea, Fine, Caorle, Grado e Cavarzere), rimaste senza una guida politica, formarono una congregazione, dandosi un autonomo governo, eleggendo (697) a capo di esso Paoluccio Anafesto, il mitico primo doge, con capitale Civitas nova (Eraclea), posta al centro geografico del Comune Venetiarum.
Gli abitanti di Jesolo, però, mal sopportavano che il governo avesse sede in Eraclea, sapendo la loro città di origini più illustri ed antiche, richiedendo, inutilmente, di diventare sede dogale. Quando il Doge eracleese, Orso Teodato, trasferì, nel 742, il centro del potere a Malamocco, per assicurarsi, con l’interposizione di un’ampia distesa di acque, la sicurezza esterna, ma anche quella interna, con l’allontanamento della nemica Equilo, la contestazione verso i dogi eracleesii aumentò.
Nel 755, l’equileiese Galla, usurpando il potere dogale, rialzava la fortuna della sua città, ma per poco, ché veniva deposto dal malamocchino Domenico Monegario, e quando otto anni dopo anche questi subì la stessa sorte, l’autorità suprema passava nelle mani di una famiglia eracliana, quella dei Gabbai, che, sostenuti da Bisanzio, poterono tenerla per quasi mezzo secolo.
Nell’804 Equilio con Malamocco riusciva ad atterrare l’antica rivale, ma non a risollevare se stessa. Il tribuno di Malamocco Obelerio, proclamato doge dai partigiani dei Franchi esuli in Treviso (nel piccolo Stato nascente chi parteggiava per i Bizantini, chi per i Franchi, a seconda dei propri interessi) con l’aiuto degli Equiliani, costringeva alla fuga i Gabbai e smantellava Eracliana, centro del partito bizantino. Sennonché all’apparire delle squadre navali, corse da Costantinopoli in aiuto degli amici, l’una al comando di Niceta nell’807, l’altra al comando di Ebersapio nell’809, Obelerio ed il figliolo, che si era associato al potere, dovettero prendere di nuovo la via dell’esilio e il principato tornò nelle mani di un eracliano, Agnolo Partecipazio [Particiaco].
E finalmente, allorché nell’anno successivo, la flotta dei Franchi, capitanata dal Pipino, figlio di Carlomagno, invase le lagune occupando e danneggiando ogni centro, all’infuori di Rialto, che in quell’occasione si rivelò un baluardo sicuro, in Rialto (810) trasportavasi definitivamente il governo ed Equilio ed Eracliana passavano, con tutti gli altri centri loro pari, in seconda linea (G. Pavanello, L’Antica Jesolo e la moderna Cava Zuccherina, in L’illustrazione veneta, n. 9, anno 1927).
A queste tragiche vicende di guerre ed invasioni, s´accompagnarono anche disastri ambientali, provocati dal Piave, il quale, com´è noto, cambiò il suo corso diverse volte. Nella storia della nostra Regione, un posto rilevante è occupato dall’alluvione del 589, avvenuta due decenni dopo l’invasione dei Longobardi, della quale, Paolo Diacono, nel capitolo 23 del II libro della sua Historia Langobardorum, così riferisce: a quel tempo ci fu un diluvio nei territori della Venezia, della Liguria e di altre regioni d’Italia, quale credo non ci fosse più stato dai tempi di Noè. Terreni e fattorie diventarono laghi e ci fu gran strage sia di uomini che di animali. Furono cancellate strade e sentieri, e tanto crebbe allora l’Adige che l’acqua toccava quasi le finestre superiori della basilica del beato Zenone martire, che è posta fuori delle mura di Verona; eppure, scrisse il beato Gregorio, divenuto poi Papa, nella chiesa non ne entrò affatto. Le mura di Verona in alcuni punti furono danneggiate dall’inondazione. Questa avvenne il 23 ottobre. Ci furono poi tanti lampi e tuoni quanti raramente se ne hanno d’estate. Sempre a Verona, due mesi dopo, gran parte della città andò distrutta da un incendio.
Wladimiro Dorigo, nel volume Venezie sepolte nella terra del Piave, pag. 106 (Roma 1994), scrisse che la catastrofica alluvione del 23 ottobre 589, che mutò probabilmente corsi di fiumi come l’Adige, dovette inferire un colpo gravissimo all’assetto idraulico del territorio. Occorre anzitutto ricordare che quell’evento non fu isolato, ma si collocò al centro di un periodo climatico straordinariamente difficile, nel quale, pur basandosi sulle fonti più sicure, si possono radunare una serie di alluvioni. Lo studioso indica nell’arco dell’anno 389 (ai tempi di Teodosio) all’886 (poco prima della coronazione di Berengario I) una dozzina di date di altri fenomeni del genere che hanno lasciato ricordi di devastazioni e lutti eccezionali. I mesi più frequentemente ricordati per questi eventi (ottobre−novembre) rivelano in genere la natura di piene fluviali autunnali, e indicano quale chiave di lettura di questa terribile catena alcuni fatti catastrofici ben noti negli ultimi decenni.
A questo evento che di certo ebbe a rinnovarsi anche per opera degli altri fiumi della Regione, altri storici hanno attribuito danni notevoli nell’intero territorio jesolano, anche se non lasciarono documentazioni altrettanto precise.
Giorgio Piloni, infine, nella sua Historia di Belluno (1607), così descrisse l’inondazione del 1512, quando il Piave allagò anche Treviso: Crebberon i fiumi quest’anno per le gran pioggie e innondazioni che regnorno con danni notabili di tutto il Paese, rovinorno i ponti, furno spiantati gli arbori con gran rovina delle campagne. Et la Piave, horibilmente accresciuta sbalzò fuori del suo solito letto, et correndo per il Trivigiano entrò con gran quand’impito in Trivigi et ruppe il ponte di Betelemme. Ma quel che più conta sono le cause alle quali lo scrittore attribuisce le inondazioni: sembra una relazione di qualche studioso contemporaneo: La causa di tante inondationi è manifesta ad ognuno. Perché venendo tagliati e spiantati li boschi sopra li monti, e sapandosi il terreno, quando vengono le pioggie non si fermano ponto le acque ma precepitosamente scendendo conducono seco la terra mossa, e entrate nelli torrenti la conducono nella Piave, la qual poi ingrossando per le acque e per la terra sbalza fuor dell’alveo consueto e va dannificando le campagne per dove passa finché entra nelle lacune di Venetia atterrando i stagni e li canalli di quella cittade. Il che non accadeva a tempi antichi, per esser i monti incolti, dalli quali scendevano le acque chiare, e con minor impeto et in minor copia, che al presente non fanno, trattenendosi fra l’herba e tra le foglie.
Il Piave, dunque, iniziò a modificare, seppur lentamente, l´equilibrio ambientale, sia di Jesolo che di altre isole, e con le sue frequenti alluvioni diede inizio ad un progressivo interrimento, al quale, coi mezzi del tempo, era impossibile por rimedio, riducendo sempre più lo spazio acqueo che separava le isole dalla terraferma, creando notevoli problemi alle attività portuali Jesolane, facilitando, anche da via terra, l´arrivo di estranei in città, e Jesolo venne invasa, ancora una volta, dai nomadi Ungheri, bisognosi di preda e non di territori: devastata la Marca friulana, giunsero sino a Verona spogliando con inaudita ferocia tutto il paese e senza incontrar resistenza penetrarono anche dentro le più solide difese delle città e dei castelli murati, proseguirono fino a Pavia, la capitale del Regno d’Italia, donde partì Berengario I, respingendoli fino alle terre venete.
La tradizione racconta che il 29 giugno 900 furono respinti nel loro tentativo di arrivare a Rialto, essendosi provveduti di zattere, otri, pelli, imbarcazioni di fortuna. Meno fortunati sarebbero stati i vici delle lagune: gli invasori prese alquante delle loro isole, abbruciati e rubati Eraclia, Equilio, Chioggia e Capodargine, si voltarono contra Rialto (Cronaca del Diacono Giovanni).
Anche se i fratricidi conflitti con Eraclea, nati per la supremazia, e le invasioni ridussero la sua potenzialità economica, rallentandone lo sviluppo, Jesolo crebbe comunque, potenziando i commerci con le città dell´entroterra, risalendo i fiumi, ma anche con l´oriente, veleggiando sul mare, esportando pesce, sale (aveva ben 32 saline) e prodotti lavorati, importando legnami, spezie e tessuti: il suo porto era frequentato da viaggiatori e mercanti che vi facevano scalo per le preziose merci che i marinai Jesolani scaricavano sulle banchine. Da esso, all´alba del Mille, il Doge Orseolo partì con la flotta, e facendo rotta verso le coste dalmate ed istriane, sconfisse i pirati che infestavano l´Alto Adriatico e ne ottenne la sottomissione.
Dopo un paio di secoli di prosperità, seguì la decadenza.
Abbandonata via via dai nobili, con i loro capitali ed i loro servi, trasferitisi a Rialto−Venezia, nuova capitale politica ed economica delle lagune, rimasti in pochi, per di più incapaci di fronteggiare gli umori del Piave, Jesolo venne lasciata al suo destino, e Papa Paolo II, nell´autunno del 1466, fu costretto a sopprimere pure la Diocesi, priva di fedeli, aggregando il territorio al Patriarcato di Venezia.
Ma qualcosa dev’esser accaduto a variare la situazione ambientale: dal principio del Trecento, i pur sommari dati, relativi ai Vescovi di Jesolo, segnalano la sempre più frequente mancanza della residenza accanto alla cattedrale. A partire dal XIV secolo, Infatti, coll´aggravarsi della situazione ambientale e la conseguente e progressiva decadenza economica, i Vescovi Jesolani, per lo più discendenti di nobili famiglie veneziane, iniziarono a mantener la residenza a Venezia, recandosi a Jesolo poche volte, solo per impellenti impegni di ministero, incaricando i canonici della cattedrale di curarsi del morente Vescovado.
Marco Cornaro (scriveva nel 1442−43) riteneva che la maggior responsabilità dell´abbandono, stette nella crescente desolazione dell’ambiente naturale, per cui Cità Nova et Giesolo sono romase destrute per le do fiumare, ciò è Livenza et Piave, le qual quelle (località) hano messo in paludo e quelle facte mal sane in modo che dicte se hano convegnudo deshabitar. E pensare, continua lo scrittore, che come trovo per lo adventario de esso Vescoado, come in quello era chiese XLII la mazor parte de quelle lavorade el salizado de musaico, come al presente è la chiesa de San Marcho et così etiam Lio Mazor, in nel qual era septe dignissime chiese cum degnissime collone de marmoro et alcune lavorate mirabilmente di musaico ne le qual tute chiesie se laudava et benediceva Iddio, de le qual chiese et luochi nominati sono andati a ruina i quatro quinti, in modo che altre sono sta’ porta’ via le piere et collone per fina ali fondamenti et altre ruinade in modo che non ce habita persona alcuna, et contra la voluntade de quelli quelle hedificorono aciò fusse pregato Idio per le aneme sue. Donde sia processo questo stato è per le aque dolce che hano quelle messe in canedo et hano facto mal aere in modo che quelle sono deshabitate ... (Come trovo nei documenti dell´archivio del Vescovado di Jesolo, la città rimase distrutta per colpa dei due fiumi Livenza e Piave che con le loro torbide hanno trasformato il territorio in palude tanto che è stato conveniente disabitarla. E pensare che vi erano ben 42 chiese, con pavimenti di mosaico come quello di S. Marco...)
Anche se solo col suo ultimo pinnacolo, la cattedrale del X−XI secolo, che sostituì la precedente dei mosaici, dimostra, ai visitatori d´oggi, lo splendore che l´edificio doveva avere. Sepolta, sotto pochi centimetri di terra, anche l´antica città attende appassionati scavatori−archeologi che riportino alla luce le sue strutture, dimostrando a chi ancora non crede, la civiltà e la grandezza un tempo raggiunte.
Verso la metà del XV secolo, la Serenissima, interessata a conservare e sviluppare i traffici commerciali sulle vie acquee interne verso il Friuli, avviò (1440) la costruzione, affidata a tale Liberal da Oderzo, di un manufatto (oggi scomparso), il quale, partendo dal Piave, si raccordava al Revedoli: per i navigli era quindi possibile, da Venezia, senza affrontare il mare aperto, raggiungere Caorle, e, per altri canali e lagune, Grado.
L´apertura del canale (primavera del 1441), favorì anche quella di empori e case per i manutentori e per i custodi, ed attirò alcuni nobili che investirono le loro fortune sul territorio. Alla fine del XV secolo, infatti, avuto a livello parte del territorio equilense, già tutto di pertinenza vescovile (il Vescovo di Jesolo possedeva anticamente tutte le acque salse di quel territorio, confinando in mare la bocca del porto di Jesolo ove usciva il fiume della Piave, con il territorio di Lio Mazor, dalla parte di ponente, e da quella di oriente o levante la bocca del porto di Livenza con il territorio di Caorle ... verso terra col territorio di Cittanova, dall’altra parte infine colle valli di Jesolo e di Tre Cai), i nobili Gradenigo, Malipiero, Soranzo ed altri, iniziarono la bonifica, favorendo l´insediamento di molti coloni.
Il 13 gennaio 1495, il Patriarca di Venezia, Tommaso Donà, accogliendo la richiesta dei nobili e loro dipendenti, istituì la parrocchia di San Giovanni Battista, la più antica del Basso Piave, fornendo ad abitanti e passanti i desiderati conforti religiosi. Il nuovo centro urbano, abbandonato l´antico sito delle Mura, si sviluppò a circa 7/800 metri da esse, nel crocevia formato dal fiume e dal canale, nei pressi della nuova chiesa. Qualche anno dopo, il canale fu assegnato (20 novembre 1499) alla manutenzione di Alvise Zucharin e dei suoi eredi, cognome che un po´ alla volta, dimenticato l´antico di Equilo−Jesolo, diede perfino il nome al nuovo abitato, divenuto così Cava (canale) Zucharina (della famiglia Zucharin), trascritto nei documenti veneziani in vari modi: Cava Zuccherina, Cavazucharina, Cavazuccherina, conservato dal paese e dal Comune (istituito da Napoleone il 22 dicembre 1807) fino al 28 agosto 1930, quando, finalmente, Re Vittorio Emanuele III, concesse di riassumere quello storico di Jesolo.
Per eliminare le frequenti alluvioni del Piave che minacciavano la laguna, il 7 marzo 1534 la Serenissima decise la costruzione dell´argine di S. Marco, a partire dalla zona da Ponte di Piave in direzione sud, arrivando a Torre di Caligo, in territorio di Jesolo, opera terminata nel 1543.
Ma l´opera non risolse il problema della sicurezza né per il basso territorio di Jesolo né per i porti veneziani, per cui, anche con lo scopo di migliorare la rapidità dei traffici verso il Friuli e l´Istria, Venezia, a metà del XVI secolo, decise di scavare un nuovo canale, il Cavetta, il quale doveva scaricare le torbide del Piave direttamente a Cortellazzo. Anche questo lavoro, nel mentre favorì certamente i traffici, non risolse di certo il problema dello scolo delle acque fluviali e neppure ridusse gli interrimenti che il fiume provocava all´ingresso del maggior Porto veneziano di S. Nicolò.
Anche il Sile danneggiava la laguna settentrionale, soprattutto nell´area di Torcello, per cui il Governo Veneto decise di far realizzare la diversione di entrambi i fiumi. Migliaia e migliaia di badilanti, provenienti da ogni contrada dello Stato, si misero all´opera (1642) e deviarono il Piave verso Palazzetto (a sud di S. Donà), sbarrando con una testadura il suo antico corso, lasciando gli ultimi venti chilometri all´asciutto. Il fiume, però, dopo aver ricoperto colle sue acque una vasta area (lago del Piave), invece che a S. Margherita (Caorle), s´aprì definitivamente (autunno 1683) la nuova foce, a Cortellazzo.
Realizzando sull´antica foce lagunare tre grandi porte (Portegrandi), collegando il fiume con un nuovo taglio all´ex alveo del Piave (Capo Sile), anche il Sile ebbe finalmente un nuovo corso (1684), andando a sfociare nel mare di Jesolo.
Le grandi opere di diversione dei fiumi, i quali non disponevano degli imponenti argini d´oggi, non migliorarono l´ambiente di Cavazuccherina, la quale, per quattro secoli, fu sinonimo di malaria, tremenda malattia, sconfitta con la bonificazione del territorio, completata solo negli anni Trenta di questo secolo.
Ma arrivò anche per questa terra la fama, seppur legata a dolorose vicende di guerra. La cronaca ed i bollettini della Grande Guerra s´occuparono, infatti, dopo la disfatta di Caporetto (24 ottobre 1917), delle vicende che accaddero in questi luoghi, ed il nome Cavazuccherina tenne in ansia migliaia di madri e padri, di entrambi gli schieramenti, che avevano qui i loro figli, in trincee allagate, dove la malaria fece più vittime del fucile.
Con obiettivo la conquista di Venezia, l´Esercito Austro−Ungarico, dapprima superò il Piave il 14 novembre 1917, occupando il territorio Jesolano, e, dopo alcuni mesi di preparazione, sferrò l´ultimo assalto, Battaglia del Solstizio (15−24 giugno 1918), ma inutilmente: i fanti e marinai italiani, ancorati sull´argine destro del Piave vecchio−Cavetta, resistettero, e, dopo una controffensiva (2−6 luglio 1918), respinsero l´invasore al di là del Piave nuovo, in attesa dell´ultima spallata, conclusasi con la Vittoria del 4 novembre.
Inenarrabili disagi e sofferenze furono sopportate in quel periodo dagli Jesolani che frettolosamente dovettero abbandonare le case, raccattando poche cose, trovando rifugio nelle lontane retrovie del fronte (in tutta la Penisola) o, peggio, esser rinchiusi nei campi di prigionia, in terra invasa, da dove molti non tornarono.
A ricordo di quella tragica epopea, il Comune volle fosse eretto un ponte−monumento, inaugurato il 9 ottobre 1927 da S.A.R. Emanuele Filiberto, Duca d´Aosta, Comandante della III Armata che in quest´area arginò l´avanzata nemica, ricordando, sui quattro obelischi delle testate, i nomi dei caduti: i marinai del Reggimento S. Marco ed i 181 figli di Jesolo.
Della Jesolo turistica, le prime notizie si hanno alla fine del 1800, quando aprì il primo stabilimento balneare, sul frontemare di piazza Marconi.
Subito dopo la Grande Guerra, l´attività turistica riprese con più lena, costruendo ville, colonie ed i primi alberghi. Nel 1934 v´erano 47 licenze di affittacamere, 24 esercizi pubblici e 4 alberghi stagionali. Tre anni dopo le camere erano 11 e gli appartamenti 57, cui si aggiunsero 2 locande, 1 trattoria, 3 pensioni e 6 alberghi. Nel 1938 i villeggianti furono 10.780. Nel 1939 le camere erano 20, gli appartamenti (e ville) 76, le locande 5, le pensioni 3 e gli alberghi 8; ma è al termine della seconda guerra mondiale che Jesolo intraprese definitivamente la via del turismo. Mettendo a disposizione la sua spiaggia, il Lido di Jesolo attirò l´attenzione di quanti (soprattutto Veneti e Lombardi), credendo nel suo sviluppo, investirono capitali, realizzando alberghi, condomini, campeggi, darsene e ville, aprendo negozi, ristoranti ed impianti sportivi ed anche la Stampa s´occupò della grande spiaggia.
Il Lido di Jesolo, a pochi chilometri dalla magica Venezia, con i suoi 15 chilometri di arenile, di sabbia dolomitica, con gli 80.000 posti letto, ospita ogni anno oltre 10 milioni di turisti (stanziali e pendolari) che trascorrono le vacanze con escursioni nel verde della Pineta e nell´incanto delle valli lagunari, frequentando le moderne discoteche, templi del divertimento giovanile, le piazze, con centinaia di spettacoli d´ogni genere, i luna park, dai mille fantasmagorici colori, e, soprattutto, via Bafile, la più lunga isola pedonale d´Europa, risuonando il suo nome, nelle lingue più diverse, in ogni parte del mondo.
C´era una volta ... racconteranno i figli dei nostri figli ... c´era una volta un villaggio chiamato Equilo, poi Cavazuccherina, ora Jesolo, e, non lontano, una spiaggia deserta, su cui si spegnevano le onde dell´Adriatico. C´era una volta ... e sembrerà una favola, quella di Jesolo, vero miracolo dei nostri tempi, paradiso naturale, specchio del lavoro umano che ha saputo creare grattacieli che si specchiano sul mare, e dare al cielo i mille colori degli ombrelloni ... la favola dell´uomo e del suo andare sulla lunga strada della civiltà, strada che lo ha portato dalla palafitta al grattacielo, qui, a Jesolo, come in tutte le contrade del mondo (A. Policek, C´era una volta).
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